giovedì 2 settembre 2010

Le prove dell'esistenza di Topolino



"Io, bambino com'ero, ne restavo assai impressionato e stupito."
- F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov

Ho ricevuto una Solida Educazione Cattolica. Uno zio prete, due genitori con un passato da catechisti, la messa ogni domenica che ha fatto Cristo, campi scuola parrocchiali [prima accompagnando i miei, poi da solo], due ore a settimana di catechismo in preparazione alla comunione [con l'aggravante di una catechista che era anche la mia maestra di italiano alle elementari, che spesso nelle ore in cui avrebbe dovuto spiegarci l'analisi logica ci parlava dell'Annunciazione - mai viceversa] e poi alla cresima [con l'aggravante di una catechista che era anche mia zia].
Non c'è bisogno di dire dei segni che tutto questo ha lasciato in me [e con "in me" non intendo certo "nel mio culo"], né che intorno ai quattordici anni ho sentito la necessità di leggere Voltaire e Nietzsche e di dire a un confessore: "Padre, il mio peccato è che non ho fede" - e non confessarmi mai più.
La mia separazione dalla Madre Chiesa è stata lenta, graduale e più tranquilla di quanto potessi mai sperare. Probabilmete mio zio prega perché la mia anima non bruci all'Inferno [non me l'ha mai assicurato] e mia madre ogni tanto borbotta "Certo, tu sei ateo!" come se dicesse "sei una testa di cazzo" [perché "testa di cazzo" è quello che vuole intendere veramente], ma ho avuto più problemi ad accettare di aver trascorso un bel pezzo della mia infanzia facendo cose che non hanno più senso per me ora, e facendole con passione e impegno [io ero quello che al catechismo scriveva le preghiere più belle, quelle che venivano lette a messa, nella pausa tra l'eucarestia e la benedizione finale]. 
Ho avuto anche qualche difficolatà a stabilire il grado di separazione. All'inizio pensavo che la fede fosse un dono che io non avevo ricevuto [che è il modo più cristiano di risolvere la faccenda]; poi di poter credere in Dio ma non nella religione come istituzione; poi di credere in Qualcosa, un'entità superiore che poteva essere di tutto, all'occorrenza. Dopo ho cercato di capire se dovessi definirmi ateo o agnostico, finché la risposta a questa domanda non è diventata "Chissenefrega" [risposta da agnostico?]. Alla fine, ho stabilito che il motivo per cui non posso essere religioso - il motivo base, quello da cui dipendono tutti gli altri miei dubbi - è che non posso evitare di pensare che Dio [qualunque dio] e la religione [una qualsiasi] siano un prodotto dell'uomo, e che non si possa pensar questo e contemporaneamente avere la certezza di essere parte del Creato. Si potrebbe obiettare che sì, è ovvio che la religione è un prodotto dell'uomo, ma ciò non toglie che alla base ci sia qualcosa di autentico e trascendente [il Dito che ha schiacciato il pulsante del Big Bang]. Che [a parte che al massimo si può parlare di "autentico spirito religioso", e che uno spirito religioso non può essere all'origine dello stesso Qualcosa che dovrebbe originarlo] è come dire che i romanzi di Liala sono paraletteratura ma ehi!, in principio era Omero.  

Ci credete che ho pensato quasi solo a queste cose mentre ero a Disneyland Paris?

Cioè, varcando le soglie del parco ho pensato "Possibile che non mi sia mai venuto in mente, prima di adesso, che magari non era una buona idea spendere cinquantatre euro così?". Poi però mi sono ricordato che Disneyland - con questo nome - esiste dal 1994, cioè da quando io avevo sei anni e mio fratello ne aveva quattro, e ogni estate ci veniva promesso che ci saremmo andati, e la sorella di mia madre e suo marito, ogni  benedetta estate, chiamavano agenzie di viaggio e controllavano calendari e prezzi, e poi non se ne faceva niente, e così fino al 1998, quando nostra madre era incinta per la terza volta ed era praticamente sicuro che noi e i nostri zii saremmo partiti e invece è morto il fratello della nonna e è andato tutto a monte - abbiamo ripiegato su due giorni a Mirabilandia. E così varcare le soglie di Disneyland Paris a ventidue anni non significa in nessun modo realizzare un sogno infantile, tornare bambini [come potrebbe?]: significa ricordarsi di una zia cialtrona e di quello che oggi è il suo ex-marito, che chissà che fine ha fatto - se n'è andato lasciando una marea di debiti.
Varcare le soglie di Disneyland significa anche entrare in una porzione di Stati Uniti da asporto, una specie di Città del Vaticano americana a 30 Km da Parigi. Significa, per un momento, trovare strano che il personale non parli inglese [o parli la versione dell'inglese che il francese medio considera perfettamente normale, che invece è una versione del francese più anglicismi - provate a ordinare da McDonald's in Francia, se ci riuscite]. 
Del resto, è stupido aspettarsi chissà cos'altro quando il primo dei Mondi che si attraversa [Disneyland è diviso in cinque Mondi] si chiama Main Street U.S.A. e è la ricostruzione di "una tipica cittadina americana del Missouri degli inizi del 1900 in cui ha vissuto Walt Disney da piccolo". Meno stupido è chiedersi dove siano le attrazioni, i giochi, perché non se ne vedono in giro. Main Street U.S.A. è una lunga distesa di ristoranti e negozi, negozi e ristoranti. Bisogna attraversare il Castello della Bella Addormentata alla fine del viale per un minimo di azione. Minimo perché il Mondo in cui si finisce si chiama Fantasyland e è dedicato ai visitatori [ai clienti] più piccoli. Tutta una roba di fate e tazze che girano e Alice e Pinocchio  e Peter Pan e caroselli. Fantasyland è il posto in cui i parcheggi per passeggini sono più affollati [vd. foto]. 
Mio fratello si chiede quale bambino possa mai desiderare di fare la fila per un'ora intera per salire su una giostrina. Mio padre ribatte che appunto per questo Disneyland non è un posto per bambini. Eppure, la versione Disneyland dei bambini [vd. foto] è entusiasta di fare la fila - le bambine vestite da principessa o indossando le orecchie di Minnie da nove euro e novanta [mia sorella ne compra un paio], i maschietti con le pistole e i cappelli da cowboy, che si comprano sia nei gift shop di Adventureland che in quelli di Frontierland.
Il primo di questi due Mondi è un insieme di Arabia versione Aladdin, giungla Maya di Indiana Jones e Sette Mari dei Pirati dei Caraibi. L'Arabia, manco a dirlo, è un bazaar. Nella parte Jones c'è Indiana Jones™ and the Temple of Peril, montagne russe su cui io e mio fratello decidiamo di fare un giro per ricordarci di essere in un parco divertimenti. Siccome il tempo di attesa indicato è di quarantacinque minuti, prendiamo una cosa che si chiama FastPass e permette di saltare una parte di fila se ci si ripresenta all'orario indicato. L'orario indicato a noi è le due e un quarto, così abbiamo tutto il tempo di fare un giro per i negozi intorno o mangiare qualcosa [prezzo di una bottiglia d'acqua piccola: tre euro]. Vogliamo poi perderci i Pirati dei Caraibi? La fila è solo di mezz'ora! Che importa se i tizi dietro di noi, italiani, si lamentano della mosceria dell'attrazione per tutto il tempo, e se l'attrazione è moscia sul serio [un giro in barca tra temibili pirati animatronix che parlano francese - francese?]. E' ora di tornare a Indiana Jones™ and the Temple of Peril, fare il giro della morte, uscire con il collo dolorante e chiedermi di nuovo se non sia troppo vecchio per questo.
In realtà, no. E non perché non sono assolutamente vecchio [al limite relativamente], ma perché qui sembra esserci posto per chiunque [vd. sotto]. Ci sono vecchi veri, adulti con le orecchie da €9.90, emo, hippie con figli sempre troppo piccoli per sembrare i loro, hipsters. Chi l'avrebbe detto? Hipsters a Disneyland. In genere sono in coppia, un lui e una lei. Probabilmente il massimo del romanticismo per la coppia hipster francese è una giornata in un parco giochi americano - LUI: "E' divertente, prendiamo in giro la gente e mangiamo french fries.", LEI: "Stupidi americani.", LUI: "Domenica ci sono gli Arcade Fire al Rock En Seine. Andiamo?", LEI: "Sì, se facessero solo i pezzi di Us Kids Know.", LUI: "Già.", LEI: "Stupidi Suburbs", LUI e LEI ridono, LUI: "En français!", LUI e LEI ridono in francese.
Frontierland è la replica del set della serie tv La Signora del West e a questo punto bisogna fare davvero un grosso sforzo per ricordarsi di essere in Francia e non in un uno squarcio nello spazio-tempo aperto tra la Realtà e la Finzione. Qui anche i fast food servono solo specialità texane. Ci fermiamo a prendere patatine fritte e ali di pollo e noto che la cameriera vestita da figlia della Signora del West potrebbe avere la mia stessa età e detestarmi. A differenza degli idioti vestiti da personaggi Disney, le cameriere, i cassieri, gli spazzini, tutta questa gente, pur essendo ugualmente costretta a indossare abiti ridicoli, è sprovvista della protezione di una maschera. La cameriera in rosa che [sicuramente?] mi detesta, i suonatori arabi, la ragazza triste alla parata, il personale del Battello Mark Twain, quell'altro tizio: loro sono i veri eroi di Disneyland, non c'è dubbio. 

Lasciamo Frontierland [dove non si sa perché restiamo un sacco: mezz'ora di fila per la Casa dei Fantasmi, all'interno della quale rimaniamo bloccati per una decina di minuti in cui ci viene ripetuto che degli "spiritelli dispettosi" hanno interrotto il nostro percorso e non capiamo se questo fa parte dell'attrazione [finzione] o siamo veramente fermi per un guasto e non usciremo mai più [realtà]; poi un giro sul Big Thunder Mountain - previo FastPass - cioè montagne russe che anche mia sorella si reputa in grado di affrontare, sbagliandosi clamorosamente; un giro sul sunnominato Battello: una perdita di tempo di quasi quaranta minuti] e facciamo per passare a Discoveryland quando veniamo bloccati sulla piazza antistante il Castello per la Once Upon a Dream Parade: un incubo di un'ora durante il quale vediamo sfilare gli idioti vestiti da personaggi Disney al ritmo di una musica assordante che è un mix delle colonne sonore dei film più famosi intervallate da una canzone power pop da siglia di Amici che tutti - vecchi e bambini - sembrano già sapere a memoria.
Discoveryland è "la zona del futuro" - il futuro come immaginato da Hollywood negli anni Cinquanta più il futuro fine anni Settanta di Star Wars più un pizzico del futuro di Jules Verne [francese? Francese]. Discoveryland è anche il Mondo che ospita Space Mountain: Mission 2, montagne russe al chiuso che godono della stessa fama di un Centro Permanenza Temporanea, al quale abdico in favore del nulla, perché mentre sono in bagno [per niente un bagno del futuro] i miei fratelli e mio padre vanno allo Star Tours [simulatore di volo a tema Star Wars]. Da solo gironzolo per questo Mondo, determinato a scovare un punto dal quale sia visibile l'altro, quello vero. Non ci riesco - il che per un attimo mi porta alla mente una visita al campo di sterminio di Dachau avvolto dalla nebbia. Cerco di accantonare il paragone increscioso [ma con la memoria involontaria non ci si può far niente], e mi ritrovo davanti uno spettacolo alltrettanto impressionante. 
Un piccione [reale] vicino a delle colombe in gabbia [finzione]. Non posso non chiedermi cosa pensi il piccione di quelle colombe, cosa pensi di me che lo sto fotografando, se stia pensando di cagarmi addosso, se sia veramente in grado di pensare.
Sono le sette di sera. Siamo entrati verso le dieci e mezza del mattino. Voglio andare a casa.
Dagli altoparlanti [a Disneyland ci sono altoparlanti ovunque: sui lampioni, nei negozi, tra i cespugli] ci avvertono che alle dieci e mezzo ci sarà l'indimenticabile parata notturna Fantillusion Parade, seguita da uno splendido spettacolo pirotecnico [per preparare il quale tutti i Mondi - eccetto Main "solo negozi" Street U.S.A. - chiudono in anticipo]. Mio padre e mia sorella sono del parere che ormai non possiamo perderceli.
Aspettiamo la parata senza far nulla. Non dobbiamo cenare perché abbiamo mangiato a orari assurdi [ma che importanza ha il tempo quando non sei in nessun luogo?], possiamo andare nell'altro parco perché è troppo tardi. Non potremmo far altro che comprare, ma non abbiamo fatto altro, tutto il giorno. 
Il tempo libero, come lo intendiamo noi, è nato col capitalismo, e niente dice "capitalismo" più di un parco giochi in cui ogni capanna nasconde un negozio, in cui bisogna farsi largo tra montagne di souvenir per trovare un'attrazione [il divertimento per cui si è pagato il biglietto]. Disneyland è un centro commerciale dove tutti i negozi sono Disney Store e al posto delle scale mobili ci stanno gli scivoli e al posto delle cassiere smunte c'è uno vestito da Pippo.
Scopro con mia grande sorpresa che rendermi conto di questo non mi sorprende, o deprime, come forse dovrebbe. Vedere quello che degli uomini hanno fatto e continuano a fare ogni giorno per far spendere soldi ad altri uomini, soldi che andranno nelle tasche di altri uomini ancora: ecco, mi sembra per la prima volta di trovare del fascino in questo processo. La magniloquenza e la chiarezza con cui tutto questo è ripetuto - la cura nei dettagli che si traduce in totale assenza di un contatto con l'esterno, con qualsiasi cosa venga da fuori [ora capisco perché all'inizio trovavo fastidiosio l'uso del francese: la lingua è l'unico ponte tra il dentro e il fuori, tutto ciò che c'è di vero a Disneyland]. Un flusso continuo tra immaginario fantastico infantile e mercato che distrugge ogni traccia di innocenza nel primo e toglie qualunque significato al secondo. Disneyland, più di qualsiasi altro posto in cui sia mai stato, è la cattedrale in cui ogni giorno si celebra tra parate e fuochi d'artificio quella coso che noi non si sa perché chiamiamo Moderna Democrazia Occidentale.  
E' tutto così univoco, unidirezionale, insistente, senza cedimento alcuno, che mentre sono in piedi sul marciapiede di Main Street U.S.A. e le luci si spengono e parte la musica, e lo scintillio della Fantillusion Parade si intravede in lontananza, e tutti intorno a me sfoderano le macchinette digitali e un bambino piange [avrà paura del buio? Lo sanno a Disneyland che i bambini hanno paura del buio?], e i flash man mano si avvicinano e ecco il primo carro e sopra, sopra il carro, avvolto da un bagliore bianco, c'è uno vestito da Topolino, lui che non si era fatto vedere per tutto il giorno, Topolino, che ora indossa una giacca blu tempestata di lucine che si accendono a intermittenza. C'è Topolino, una visione, che luccica davanti a me e io penso che sì, forse qualcosa c'è, qualcosa che va oltre, che ci accompagna nel cammino, Qualcosa che dia una giustificazione, ci deve essere. Per forza. C'è.
Topolino esiste.

2 commenti:

Heike ha detto...

Citare da wikipedia non è il massimo, ma talvolta mi ruba le parole:
"Marc Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici (...). Spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane o come porta di accesso ad un cambiamento (reale o simbolico)".
Oltretutto, come dice Tiziano Sclavi in non mi ricordo più che libro, è tutto materiale letterario.
Pezzo eccellente, come sempre.

gb ha detto...

grazie a te, e mille grazie a wikipedia, nostra fedele compagna dal 15 gennaio 2001 [dato fornito da wikipedia].